Fonte dell’articolo Amici Domenicani – Autore Padre Angelo Bellon op.
Quesito
Buona e santa sera, Padre Angelo.
Le volevo porre un quesito che riguarda il mio percorso esistenziale.
Mi sono laureato in giurisprudenza e subito dopo il conseguimento della laurea ho deciso di intraprendere il difficile cammino per diventare magistrato.
All’ epoca ero molto entusiasta, oggi c’è più di un aspetto di questa professione che mi perplime.
Il primo: l’idea di dover giudicare una persona in base ad una legge umana e spesso asettica mi porta ad interrogarmi continuamente su me stesso, sulle mie mancanze, sulle mie ipocrisie, sulle omissioni della società che conducono a certe situazioni di malessere e purtroppo di delinquenza. A me piace la professione del magistrato: posso considerare questa continua riflessione che questo cammino comporta come un antidoto che Dio mi offre per evitare l’inevitabilità vanità del potere mondano? Un giudice umano come può trasformare il suo lavoro in un atto di carità?
Il secondo e fondamentale aspetto: ci sono reati gravi (ma non solo) per cui l’ordinamento predispone pene severe. Il male, come scritto anche in una delle meditazioni della Via Crucis di quest’anno, non può essere banalizzato. È vero: ma l’insegnamento di Cristo non ci invita ad offrire una seconda possibilità a chi lo desidera realmente e a non condannare con misure tendenzialmente eccessive?
C’è un’idea, quella di giustizia riparativa, fondata sul recupero della relazione, previo loro consenso, tra autore e vittima del reato, tra il condannato e la sua comunità di riferimento; attraverso degli incontri si cerca di soddisfare la sete di ascolto di chi è segnato da vicende tanto tragiche. Purtroppo trova ancora poco spazio nella prassi e nelle norme. Le pongo due quesiti: c’è un riferimento teologico che giustifica un mestiere come quello del magistrato e della possibilità di privare della libertà una persona per tanto tempo? Inoltre, già solo da studioso del diritto, può essere considerata opera di apostolato parlare di un possibile incontro tra giustizia umana e Misericordia divina?
La ringrazio in anticipo per la disponibilità e la ricorderò molto volentieri nelle mie preghiere.
P.S. Il Santo Rosario è ciò che mi sta portando a riscoprire seriamente la mia fede, la fiducia nella protezione materna e pormi domande sul come la mia esistenza possa essere un buon servizio a Dio.
Risposta del sacerdote
Carissimo,
1. rispondo direttamente alle due domande che mi hai posto: se sia lecito ad un magistrato privare della libertà la persona per tanto tempo e come si possa conciliare la giustizia umana con la misericordia divina.
Ebbene sul primo punto ci si trova di fronte all’abuso di libertà attuato da una persona, e di un abuso che ha procurato danni ad altri.
Non c’è alcun dubbio che una società debba tutelare i propri membri mettendo in stato di fermo chi attenta al bene altrui.
L’intento non è quello di privare la libertà, ma di impedirne gli abusi continuando a fare del male.
È una specie di volontario indiretto, direbbero i teologi moralisti.
A questo volontario indiretto se ne può aggiungere anche un altro, ed è quello del ricupero morale, sociale e psicologico di colui che ha commesso dei reati.
2. Sul secondo punto, fin dei primi tempi del cristianesimo ci si è posti la domanda se fosse lecito mettere a morte una persona o in quale maniera esercitare la giustizia.
In un documento molto antico del secondo secolo veniva chiesto ai cristiani di non esercitare il mestiere di soldato o la professione del magistrato supremo o di colui che ha il potere di vita e di morte per evitare di comminare ed eseguire condanne capitali (cfr. La tradizione Apostolica, n. 16).
3. Nei primi secoli del cristianesimo è tipico degli autori cristiani l’insistenza sul manifestare la mitezza nel combinare le pene.
Tertulliano afferma che il credente, rivestito di una carica pubblica, “non deve condannare a morte nessuno” (De Spectaculis, cap. XIX).
Sant’Ambrogio loda il magistrato che per clemenza trasforma la pena capitale in una pena detentiva: “Io so che la più gran parte dei pagani si ritengono onorati di aver riportato dalla loro amministrazione nelle province una scure non insanguinata: cosa debbono dunque fare i cristiani?”.
Portando l’esempio di Gesù che non condanna l’adultera alla lapidazione dice: “Hai un esempio da imitare; può darsi che quel criminale possa avere una speranza di correggersi; se non ha ancora ricevuto il battesimo, possa avere la remissione dei suoi peccati; se è stato battezzato, che faccia penitenza e offra il suo corpo a Cristo. Quante sono le vie per la salvezza!” (Lettere, n. 25, 8).
4. Nel medesimo tono si esprime Sant’Agostino: “Noi non cerchiamo su questa terra di vendicarci dei nemici; le nostre sofferenze non debbono spingerci a tale grettezza d’animo da dimenticare il comando datoci da colui, per la cui verità e nel cui nome noi soffriamo… noi invece desideriamo di farli emendare e non già di farli uccidere”.
E, volgendosi al magistrato afferma: “Tu hai il potere di condannare a morte, ma noi imploriamo la loro sopravvivenza… non dobbiamo allontanarci mai dal proposito di vincere il male con il bene… perché la chiesa vuole il ravvedimento, non la morte dei suoi persecutori” (Lettere, n. 100, 1-2).
Per coloro che hanno confessato orribili delitti, prega che non venga data la pena di morte “non solo per la pace della nostra coscienza, ma anche per mettere in risalto la mansuetudine cattolica” (Lettere, n. 139,2).
Ti ringrazio per le preghiere che mi assicuri. Le contraccambio volentieri.
Ti ringrazio anche per quello che hai detto sul Rosario e sui benefici che sta portando nella tua vita.
Ti auguro ogni bene per il tuo futuro e ti benedico.
Padre Angelo
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