Am 6, 1a.4-7; 1Tim 6, 11-16; Lc 16, 9-31
Oggi il vangelo picchia duro. Soprattutto in un luogo come il carcere in cui parlare di ricchi, di denaro, di benessere ricorda ciò che hai compiuto fuori per possedere, esercitare potere, dominare. Dove scatta anche l’invidia per chi ha tanto, la rabbia contro chi non dona, forse dimenticando da che storia si proviene. Il vangelo continua a richiamare la necessità di essere pensanti, di riflettere, di non lasciar nulla di intentato per cercare di comprendere meglio.
Ecco perché l’omelia sembra non finire mai, ma non per la lunghezza del cappellano, quanto per il bisogno dei detenuti di confrontarsi su un testo duro, di capire, di condividere i loro pensieri. In fondo la domanda con la D maiuscola è: “Chi è il ricco?”. Sarebbe facile la risposta ma rischierebbe di rimanere in superficie. Prima di tutto il ricco non ha un nome ma solo un’immagine, il modo in cui si presenta abbigliato di finissime vesti, ma senza nome. Il povero ha un nome, è chiamato per nome, la sua povertà non sarà la sua condanna ma la sua salvezza. R. coglie immediatamente: “Dobbiamo svestirci dei panni che ostentano, che danno solo un’immagine, che ci fanno vedere per ciò che indossiamo e non per ciò che siamo”. Quindi, R., tutti siamo potenzialmente ricchi quando ci mascheriamo, quando esibiamo una facciata, quando viviamo di esteriorità. Ecco perché il ricco non ha un nome, perché tutti noi lo siamo, perché la mancanza di nome indica che quella maschera appartiene a ciascuno di noi. E la prima catechesi arriva da chi ha vissuto di falsità e la sta pagando, da chi forse sta comprendendo che bisogna scendere in profondità. Il vestito è il tormento del ricco, spinge a guardarlo ma non a incontrarlo, a adularlo ma non ad amarlo. L’identità si confonde con l’avere e si dimentica dell’essere. La mancanza di abito di Lazzaro lo salva perché lo mostra per ciò che è. Fa percepire le sue piaghe, il suo dolore, il suo bisogno di essere salvato.
Non basta: “Cosa rende povero il ricco del Vangelo?”. E anche qui la risposta è immediata, un catechismo in piena regola perché tirato fuori dall’interiorità dei detenuti, perché sta passando sulla loro carne e la loro pelle. L’indifferenza. Ecco cosa trasforma la persona in un vero povero, in un ricco che non cerca la salvezza: il non saper cogliere e incontrare la vita dell’altro, dei tanti Lazzaro sul suo cammino, dei tanti privi di tutto. T. sottolinea che Lazzaro è salvato proprio dallo sguardo di Chi passa e lo vede non distrattamente ma con attenzione, si ferma, fascia le ferite, fissa i suoi occhi sul bisogno e la povertà. E T. si sofferma anche sull’indifferenza definendola la vera aggressione perché rende l’altro invisibile, lo riduce all’inesistenza, alla più totale trasparenza. La vera aggressione è dire all’altro “non esisti”. Meglio uno schiaffo, sottolinea Don Antonello, almeno mi hai toccato. Eppure ognuno di noi si dice non violento, ma c’è una violenza più subdola e sottile che riduce l’altro a un morto vivente.
Da qui il passo è breve. Gli inferi. Parola usata e spesso abusata ma non compresa fino in fondo. Ci aiutano i detenuti che di inferi se ne intendono. Sono la parte più bassa dove cadiamo quando il nostro sguardo è indifferente tanto da non cogliere il passaggio del Cristo che ci viene a visitare e di chi accanto a noi versa nella fragilità. Non è il luogo dei cattivi ma di tutti noi quando falliamo l’incontro con Gesù, quando non cogliamo il suo invito e ci chiudiamo nell’apparenza del vestito buono. La ricchezza da rifuggire è l’autosufficienza, il non aver bisogno di aiuto, di una mano, dell’altro e, allo stesso tempo, non farsi soccorso. Il ricco finisce agli inferi perché non ha sollevato gli occhi dal suo ombelico, come si suol dire, e si è fatto centro di se stesso nel momento in cui ha coltivato la durezza del cuore per salvare il suo benessere. Non ci è sconosciuta questa ricchezza-morte. Ci è invece molto familiare, sarà meglio che non ci abbandoniamo al facile giudizio. Don Antonello chiede quale sarebbe la reazione davanti a un povero sporco e pieno di piaghe. D. risponde in vernacolo romano: “Datte ‘na lavata”. Ecco la ricchezza che chiude il cuore. Quante volte anche noi abbiamo pensato e agito così? Gli inferi sono nostri… Qualcuno invece è passato e si è fermato a lavare, medicare, riabilitare, sanare. Non ha lasciato ad altri questo compito, non ha spedito il povero a rendersi presentabile. Lo ha reso lui stesso presentabile e lo ha salvato.
D., come tutti noi, rimane spiazzato, un sistema totalmente diverso. Ma tu, giocoliere, sei un “diverso”. Meno male. Sei il Dio della relazione non dell’utile, della convenienza, del “prima lavati e poi ne riparliamo”. Ci chiami costantemente ad abbandonare la logica del “mi piace” che domina le nostre azioni, per la logica del “cosa è veramente utile alla mia vita, cosa mi fa crescere, cosa mi rende migliore?”. Difficile ma non impossibile. È passare dall’inferno agli inferi o viceversa. I detenuti si soffermano su questa differenza. L’inferno è la scelta definitiva, un no secco e irrevocabile, una dannazione irrecuperabile. Gli inferi rappresentano lo spazio di un incontro ancora possibile, di una salvezza ancora realizzabile. Non c’è il definitivo, l’ergastolo, ma la possibilità di lasciarsi affascinare dallo sguardo di un Gesù che cerca disperatamente i nostri occhi, che visita continuamente le nostre vite. Gli inferi come luogo del possibile per chi ancora non gode della visione di un Dio che chiama per nome e salva. C’è ancora speranza per ciascuno di noi. Non siamo persi completamente. Possiamo ancora vivere e testimoniare la logica del per-dono e non del per-sé, del poter essere visti, riconosciuti, legittimati. Amati da chi riconosce che ognuno non è un dono semplicemente per sé ma per ogni altro che incontra. Se rimaniamo indifferenti le porte degli inferi non si apriranno e nemmeno la resurrezione cambierà la nostra vita esattamente come accade al ricco del vangelo che chiede ad Abramo di andare a salvare i suo fratelli, ad avvertire del dolore della morte eterna solo i suoi e non tutti gli altri. Ancora una volta ripiegato su di sé e irrimediabilmente perso.
- esprime la sua perplessità e la sua rabbia: “I ricchi vengono sempre demonizzati ma in fondo se non ci fossero chi creerebbe lavoro? Piuttosto mi aspetto dalla chiesa ricca una risposta, un esempio da seguire”. Noi siamo chiesa, P. I nostri piccoli gesti quotidiani di attenzione, il nostro sguardo che si fissa sulla fragilità, la responsabilità della vita dell’altro senza scrollare le spalle. Don Antonello chiede scusa a P. e a tanti per le volte in cui anche la chiesa, fatta di uomini, ha dato esempio di potere più che di servizio e invita a sentirci comunità che cammina insieme perché il vero cambiamento inizia dal basso e dal basso procede: non nascondiamoci dietro le presunte colpe degli altri. Non serve. Occorre invece aprire le prigioni del cuore, accorciare le distanze, ricomporre le fratture, abbandonare schemi protettivi che ci distanziano da chi è visto e vissuto come un pericolo. Fare fatica per aprire nuove strade in cui andremo a chiedere la salvezza non solo per i “nostri” ma per tutti.
Oggi A. non ce l’ha fatta a rimanere in chiesa. Il fine pena si è allungato di ancora tanti anni. A. piange, non chiede aiuto ma solo uno sguardo. Essere visto, ascoltato, accolto. I nostri occhi si incrociano. Umidi delle stesse lacrime.