Fonte dell’articolo mauroleonardi.it
Non so se è vero ma certamente un importante compito dell’educatore, soprattutto in ambito sportivo, è insegnare a rifuggire da quel diploma di vittima che tanto spesso è gran parte del nostro curriculum vitae. Nel calcio, come nella vita, riesce chi non dà la colpa agli arbitri – ovvero al governo, alla storia, allo stato, ai genitori, alla razza o alla sorte – ma si rimbocca i calzettoni e lavora.
Josif Brodskij, che fece un memorabile discorso in proposito all’Università del Michigan, viveva negli Stati Uniti e conferma che l’indole americana è disgustata da modi di fare che, purtroppo, ai nostri tifosi spesso piacciono troppo. Chi vinse il Nobel per la letteratura nel 1987 venne condannato in URSS per parassitismo sociale e nonostante ciò sosteneva che la parte del nostro corpo che più dobbiamo temere è il nostro dito indice, perché ha la mania di incolpare gli altri.
Il diploma di vittima all’inizio è tanto comodo ma alla lunga rivela la volontà di chi non vuole cambiare le cose. “Sono una vittima” è lo carta d’identità della parte debole della nostra personalità, quella che non vuole affrontare ne sé né gli altri. Quella parte che se passasse il buon samaritano non si farebbe caricare e portar via ma direbbe di lasciarci lì, a terra. Sì, è un po’ sporco, poco dignitoso, ma è una scomodità tanto comoda. Se sei a terra non hai responsabilità, pesi, colpe. Sono a terra, lasciatemi in pace.
Ma l’arte di dare colpa agli altri, alla lunga non paga